Ci si aspetterebbe un po’ più di fama per un autore che con grande originalità ha scritto ben due poemi esametrici sulle bestie velenose e i rimedi ai loro veleni. Eppure l’autore in questione – Nicandro di Colofone – non è certo fra i più noti al vasto pubblico; forse persino chi ha fatto il liceo classico non ne serberà un ricordo molto vivido. Pare che sia vissuto nel III secolo a.C. e si sia mosso nell’ambito della corte degli Attalidi di Pergamo, ma i dati biografici sono confusi (forse c’era un poeta suo omonimo). Delle sue opere sopravvivono frammenti e due poemi per intero, i Theriaka (versi ‘relativi alle bestie’) e gli Alexipharmaka (‘rimedi’). Di questi due poemi è arrivata recentemente (autunno 2022) un’edizione corredata di traduzione a fronte e commento a cura di Valeria Gigante Lanzara per Olschki Editore. Il libro giunge gradito, tanto più perché le edizioni italiane moderne del poeta scarseggiano: era uscita nel 2007 a cura di G. Spatafora un’edizione commentata dei due poemi per Carocci editore, ma nulla di più in tempi recenti (e sebbene gli specialisti si possano rivolgere all’edizione di tutta l’opera superstite del poeta a cura di Gow-Scholfield così come a quella più voluminosa in tre tomi di Jacques, si può dire che comunque non abbondino le edizioni moderne del poeta tout court).

Ma a cosa è dovuta questa fama abbastanza ridotta del poeta, ci si chiederà (sebbene alcuni maligni la attribuiranno alla qualità dei suoi versi, che sono sicuramente poco ‘canonici’). Se da un lato è in gioco la solita presenza oltremodo ingombrante dei tre ‘grandi’ poeti ellenistici (Callimaco, Apollonio Rodio e Teocrito), e la loro conseguente influenza nella letteratura latina, dall’altro ci sono altri fattori in gioco. La combinazione fatale è probabilmente quella de ‘le parole e le cose’, perché tanto lo stile quanto il soggetto scelto da Nicandro sono sicuramente ostici.

Anzi tutto, dunque, il soggetto. Va fatta una premessa alla lettura di Nicandro, che si trova opportunamente nelle pagine introduttive dell’edizione di Gow-Scholfield. Gli antichi greci, sebbene si siano dedicati con dedizione allo studio della flora e della fauna (basti pensare ai trattati botanici di Teofrasto o alle opere zoologiche di Aristotele), praticavano delle distinzioni tassonomiche che a noi moderni non sembrano molto scientifiche. Laddove i moderni si attengono all’uso oramai consolidato di riferirsi a un genus e una specie per ogni essere vivente, i Greci classificavano e raggruppavano in base a somiglianze e comportamenti. Il risultato è che con la stessa parola spesso indicavano animali molto diversi (che noi sappiamo non essere imparentati) e per i quali nelle lingue moderne a buon bisogno si usano parole diverse. Un esempio: la parola κῆτος (kētos), sebbene venga usata da Aristotele in senso più scientifico e più vicino a noi (per indicare cioè quelli che noi classifichiamo come ‘cetacei’), veniva impiegata comunemente in greco per indicare tanto le balene quanto più genericamente animali marini di media e grossa taglia (incluse ad esempio le foche) o addirittura mostri marini. Questo pone, peraltro, una quantità considerevole di problemi legati a come tradurre nelle lingue moderne i vari termini greci usati per piante e animali, ma questa è un’altra storia.

Morelia spilota (foto via Unsplash).

Ciò detto, in cosa consistono questi due poemi? I Theriaka (poco meno di 1000 versi) si aprono sull’immagine dello scorpione che nel mito uccide Orione. Segue una lista di rimedi naturali per i veleni, seguita, nel resto del poema, dalla descrizione di una quindicina di rettili velenosi; torna poi un nuovo catalogo di erbe medicamentose intervallato da altre descrizioni di veleni contro cui sono utili. La grande originalità dell’opera, come nota Gigante Lanzara, sta nel ‘contrasto tra l’orrore dei mostri e le fantasia di erbe e fiori che ne eliminano la pericolosità’ (p. VII). Gli Alexipharmaka, invece, per un totale di 630 versi, non si soffermano su bestie pericolose, bensì su sostanze tossiche e i loro rispettivi rimedi (in totale ventidue sostanze di varia origine). E a proposito di tossico, con la parola τοξικός (toxikós) Nicandro designa un’erba difficile da identificare, che è fatale appena ingerita: gli scolî (cioè gli antichi commenti al testo) ci informano che la pianta è così chiamata o perché è veloce ad agire come una freccia che scocca, o perché viene usata dai Parti e dagli Sciti per avvelenare le loro frecce –  τόξον (tóxon), infatti, significa arco in greco.

Due poemi, dunque, certamente inusuali e che si compiacciono di un tema un po’ macabro. Eppure, come nota la curatrice, non sono privi ‘di un’ispida grazia’ (p. X), come si nota ad esempio nell’attenzione dell’autore alle bestiole velenose che strisciano all’ombra dei grandi eroi del mito: è il caso dello scorpione, ‘acquattato sotto un piccolo sasso’, che colpì Orione prima di diventare costellazione assieme a lui (Th. vv. 13-21) o del geco, ‘un cosino da nulla che produce esecrabili morsi’, la cui metamorfosi da ragazzo ad animale operata da parte di Demetra in cerca di Core è appena accennata (vv. 484-7). Così anche le piante del mito diventano protagoniste accanto agli eroi, come la ferula in cui Prometeo aveva rubato il fuoco e che viene nominata come ingrediente utile per un farmaco (Alex. vv. 272-3).

Aconitum variegatum (Wikimedia Commons). In Alex. vv. 12 e ss. Nicandro parla dell’aconito che cresce sulle rive dell’Acheronte (e secondo il mito il fiore era nato dal vomito del cane Cerbero).

Nello stile, Nicandro è al tempo stesso simile ai suoi contemporanei più famosi e una voce fuori dal coro. Se da un lato come Callimaco e Apollonio Rodio riprende abbondantemente il linguaggio omerico, dall’altro ne opera spesso uno stravolgimento, come quando usa l’omerico θυμολέων, thymoléon (detto di Achille ‘cuore di leone’ in Iliade 7.228) per il cane di Alcibio (Th. 671).

Al tempo stesso, come l’eccentrico poeta ellenistico Licofrone, Nicandro conia molti neologismi. Vediamo qualche esempio concreto da un passo dei Theriaka (vv. 625-9) che tratta dell’anagallide e della maggiorana:

“Non tralasciare

Il fiore del dolcissimo elicriso,

l’anagallide, occhi semichiusi,

la maggiorana

che sana tutti i mali, conosciuta

come origano d’Eracle

e sminuzzali insieme con la foglia

dell’origano d’asino e pallottole

di santoreggia secca che divorano

il funesto malanno”.

Come nota Gigante Lanzara nel commento ad locum, due note di originalità si distinguono nel passo: l’aggettivo riferito al fiore dell’elicriso (πολυδευκής, polydeukés), che non è attestato altrove, e l’aggettivo μύωψ (myops, reso come occhi semichiusi), che i commenti antichi spiegano col fatto che le foglie della pianta sono rivolte a terra e assomigliano a occhi semichiusi.

Un soggetto inusuale, dunque, e uno stile bizzarro. Se pure in età ellenistica Arato aveva messo in poesia il cielo e le costellazioni nei suoi Fenomeni, la scelta di Nicandro rimane più audace – e come notavano Gow-Scholfield con amara ironia, ‘mentre il lettore ignorante può imparare un bel po’ di astronomia da Arato, la vittima di un morso di serpente o di un avvelenamento che si rivolgesse a Nicandro per pronto soccorso si troverebbe in un bel guaio’. L’audacia di Nicandro, dunque, può essere andata a detrimento della sua fama; ciò non significa, però, che noi lettori moderni non possiamo godere di questa poesia stravagante.