La divulgazione è una faccenda seria, molto seria. E non è affatto facile, in particolare per quanto riguarda il mondo classico greco-romano. In questo campo, infatti, forse più che in altri, la divulgazione è considerata una questione di marginale importanza (quando non proprio una perdita di tempo). Non è un caso, quindi, che spesso essa si riduca o a contenuti banalizzanti (il fast food nell’antica Roma) oppure sensazionalistici (come facevano l’amore i Greci).

Irene Vallejo ci dimostra senza ombra di dubbio che si può scrivere di mondo classico in modo appassionante e appassionato, e allo stesso tempo con il rigore scientifico degno di un manuale universitario. E sceglie di farlo partendo da una  prospettiva molto particolare, quella del materiale scrittorio che ha permesso per secoli il trasferimento di conoscenze, la comunicazione privata, la composizione letteraria: il papiro. 

Papyrus. L’infinito in un giunco (meritoria pubblicazione di Bompiani) è un poderoso volume che tuttavia non deve intimorire. Attraverso uno stile narrativo lineare, l’autrice accompagna il lettore ad ascoltare gli aedi omerici, a seguire Alessandro Magno fino in India, a visitare la biblioteca di Alessandria. 

Due aspetti rendono la divulgazione di Vallejo diversa da tutte le altre viste fino ad ora. Da una parte il ricorso continuo alle fonti (letterarie, epigrafiche, papiracee, archeologiche ecc.) puntualmente richiamate nelle note in fondo al volume (una scelta felice, per non spezzare continuamente lo scorrere del racconto), utilissime per chi voglia approfondire. 

Dall’altra la continua alternanza tra la grande epopea culturale greco-romana e le esperienze personali dell’autrice, studente prima e studiosa poi di letteratura classica, un espediente che traccia una linea di continuità tra il nostro presente ed un passato che ancora non ci abbandona.

Non ci resta che sederci sulle rive del Nilo, accarezzare il fusto triangolare di una pianta di papiro e iniziare il viaggio!

Papyrus. L’infinito in un giunco di Irene Vallejo è diviso in due parti. Non possiamo ripercorrere pedissequamente il percorso divulgativo e insieme intimo dell’autrice (anche per non togliere il piacere della lettura), ma qualche episodio vale la pena di metterlo in evidenza. 

La prima parte, La Grecia immagina il futuro è ovviamente imperniata su figure centrali della storia, della letteratura e della cultura greca, la cui opera ancora riverbera nel presente. Tra di essi, non può mancare il personaggio che più di altri contribuì all’espansione dell’area di influenza culturale greca (e del suo alfabeto): Alessandro Magno. 

La sua epopea si screziò ben presto di venature leggendarie, grazie anche al lavoro degli storici che Alessandro portò con sé nel corso delle sue conquiste. Questa serie di racconti, incredibili anche quando veri, congiurarono alla creazione del cosiddetto Romanzo di Alessandro, tradotto e riscritto decine di volte in tutto il bacino del Mediterraneo e non solo.

Vallejo interpreta l’epopea storica di Alessandro attraverso una parola, pothos, un termine semanticamente molto pregnante in greco perché indica «il desiderio di ciò che è assente o irraggiungibile, un desiderio che provoca sofferenza perché non si può placare», come scrive l’autrice. È il pothos a spingere Alessandro fino alle rive dell’Indo, fino alle pendici dell’Hindu Kush, un desiderio quasi ossessivo nutrito dalle lezioni di Aristotele e dalla lettura dell’Iliade. La sovrapposizione tra il macedone e Achille è resa esplicita nel celebre episodio della visita del condottiero alla tomba dell’eroe.

Vallejo non aggiunge nulla: la storia di Alessandro Magno è già un romanzo di per sé. Le conquiste, i viaggi, l’evergetismo, le imprese architettoniche e ingegneristiche, la lotta contro i malumori di un esercito portato ai confini del mondo ma che ormai è stanco, potrebbero essere gli ingredienti di un fantasy. Ed invece è storia. La morte colse Alessandro nel 323 a.C., forse un malore (ma non mancarono i sospetti di congiura). In poco più di 10 anni il mondo era cambiato.

Secondo aspetto che ha incuriosito chi vi scrive. È incredibile come la civiltà che ci ha consegnato la filosofia, la democrazia, la cultura sportiva, il teatro, non avesse minimamente in considerazione la condizione femminile. Certo, la situazione variava da città a città, ma è significativo che in quella che consideriamo la culla della civiltà occidentale, l’Atene del V sec. a.C. , la condizione femminile fosse la peggiore. 

Tra le pagine di Papyrus. L’infinito in un giunco, Irene Vallejo propone un’ipotesi molto suggestiva. Proprio nell’Atene del V sec. sarebbe nato un movimento proto-femminista a partire dalle donne che in quel periodo storioco e in quella società erano le più libere e le più istruite della società: le etere. E tra le etere, una in particolare: Aspasia, la compagna di Pericle, una donna che sovvertì le convenzioni sociali del suo tempo accompagnandosi ufficialmente ad un importantissimo uomo politico sposato, che teneva in grandissimo conto le sue opinioni e le faceva partecipare alle riunioni solitamente riservate agli uomini. 

Secondo Vallejo sarebbe questo il motivo per il quale, improvvisamente, letterati (Aristofane ed Euripide soprattutto) e filosofi (in particolare Platone) si mettono a discutere seriamente del ruolo della donna nella società, un problema che fino a quel momento non si era neppure posto. 

È una lettura molto azzardata ma estremamente affascinante. Anche perché pone una domanda molto corretta: perché si ci si inizia ad interrogare sul ruolo della donna nella società proprio tra V e IV sec.? Perché non prima? Perché non dopo? Se anche la proposta di Vallejo si rivelasse, in definitiva, non rispondente al vero, rimane la questione di fondo. Non resta che tornare a leggere i testi per provare ad intravedere se qualche spiraglio di luce filtra tra le righe. 

La seconda parte del volume, che porta il suggestivo titolo de Le vie di Roma, è invece dedicata all’Urbe. E leggendola ci chiediamo: che cosa c’entra l’assassinio di Cesare con la storia del libro, della scrittura e della lettura? Molto più di quanto possiate pensare.

Non è noto al grande pubblico, ma Cesare aveva intenzione di costruire a Roma la prima biblioteca pubblica della storia. Il 15 marzo del 44 a.C. il progetto non era ancora stato avviato, ma già si era individuato l’uomo a cui affidare un incarico così delicato: Marco Terenzio Varrone. Il CV in cui figurava autore del De lingua latina, delle Antiquitates e soprattutto del De bibliothecis deve aver convinto senza fatica il condottiero. 

Il sogno di una biblioteca pubblica a Roma non si interruppe. Pochi anni dopo, nel 39 a.C., Gaio Asinio Pollione fondò la prima collezione di libri greci e latini liberamente accessibile nel tempio della dea Libertà sull’Aventino. Un buon investimento per il bottino di guerra che aveva riportato dalle campagne militari in Macedonia, non trovate? Di questa biblioteca non rimane alcuna traccia, ma da quel momento Roma non fu più la stessa. Prima con Augusto, poi ancora di più con Traiano, l’Urbe si arricchì di numerose raccolte, tutte liberamente accessibili, arrivando a rivaleggiare con Alessandria. Roma non voleva essere seconda a nessuno nemmeno nel possesso di libri. 

Parallelamente, I sec. a.C. e I sec. d.C., si iniziò a sviluppare un fiorente mercato librario, a cui lettori più o meno colti potevano rivolgersi per soddisfare le proprie esigenze. Dove trovare le migliori botteghe? Beh, chiedete a Irene Vallejo e al suo Papyrus. L’infinito in un giunco: sapranno sicuramente consigliarvi per il meglio. 

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